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Nozione di "profitto ingiusto"



La gestione dei rifiuti e le altre condotte previste come illecito devono concretizzarsi in più operazioni ed intervenire attraverso allestimento di mezzi e attività continuative organizzate; entrambi gli aspetti, inoltre, devono configurarsi cumulativamente. Le condotte sanzionate si riferiscono a qualsiasi gestione dei rifiuti (anche attraverso attività di intermediazione e commercio) che sia svolta in violazione della normativa speciale disciplinante la materia, sicché esse non possono intendersi ristrette dalla definizione di gestione delineata dall'art. 6, 10 comma - lett. d), del D.Lgs. n. 22/1997, né limitate ai soli casi in cui l'attività venga svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni.

(Nel caso di specie, il Collegio ha verificato la correttezza degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. Innanzitutto, lo svolgimento abusivo di una pluralità di operazioni di gestione dei rifiuti si ricollega al reiterato conferimento in discarica di circa 114 tonnellate di polvere di ferro, che, nel momento in cui la detentrice se ne è in concreto disfatta, devono considerarsi a tutti gli effetti "rifiuti". Quindi, l’allestimento di mezzi e attività continuativamente organizzate, a fronte dell'effettuato riscontro della presenza di una struttura organizzativa, di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira. Tale struttura, giova evidenziarlo, secondo la previsione normativa non deve essere destinata in via esclusiva alla commissione di attività illecite. In terzo luogo, la gestione di "ingenti quantitativi" di rifiuti).

Il termine "ingente" ha un chiaro significato semantico nel linguaggio comune e va riferito all'attività abusiva nel suo complesso, cioè al quantitativo di rifiuti complessivamente gestito attraverso la pluralità di operazioni (le quali, singolarmente considerate, potrebbero avere ad oggetto anche quantità modeste).

(Nella fattispecie, il Collegio ha sottolineato che la società ricorrente aveva sversato occultamente in discarica circa 117 tonnellate di polveri ferrose dal novembre 2002 al luglio 2003 e tale dato quantitativo razionalmente deve ritenersi ricondotto alla previsione della norma incriminatrice).

Nel concorso in attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, basta anche lo svolgimento abusivo di una pluralità di operazioni di gestione degli stessi al fine di conseguire un "profitto ingiusto". Tale "profitto" non deve necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale, ben potendo lo stesso essere integrato dei mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura. Non essendo necessario, ai fini della perfezione del reato, l'effettivo conseguimento di un vantaggio siffatto.

Le associazioni ambientaliste, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato.
Il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 cod. civ., poiché l'art. 185, 2° comma, cod. pen. - che costituisce l'ipotesi più importante "determinata dalla legge" per la risarcibilità dei danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. - dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo dei soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi "danneggiato" per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo. Pertanto, possono costituirsi parti civili sia le associazioni ambientaliste nazionali sia le sedi locali di esse, che rappresentino un gruppo significativo di consociati e che abbiano dato prova della continuità e della rilevanza del loro contributo alla difesa dell'ambiente.
La pretesa risarcitoria deve essere connessa però ad un pregiudizio diretto ed immediato e non ad un mero collegamento ideologico con l'interesse pubblico, che resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio e non risarcibile. L'art. 311 del D.Lgs. n. 152/2006 riserva allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale). Tuttavia, ai sensi del successivo art. 313, comma 7°,comunque, "resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi". Si è avuto un ridimensionamento del ruolo degli enti locali, ai quali è stata espressamente attribuita la sola facoltà di sollecitare l'intervento statale (art. 309) e di ricorrere in caso di inerzie od omissioni (art. 310), ma non la legittimazione ad agire ed intervenire in proprio per il risarcimento del danno ambientale.
Rientrano nella esclusiva pertinenza statale i profili strettamente riparatori dell'ambiente in sé, mentre gli enti territoriali possono agire per il risarcimento dei danni diversi, derivanti dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati di cui sono portatori, ad essi eventualmente arrecati.


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