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Semplificazione normativa in relazione agli impianti fotovoltaici

TAR Lecce, n. 1064/10

In materia di denuncia di inizio attività per impianti fotovoltaici, alla Pubblica amministrazione, per ragioni di buon andamento, deve essere assegnato, ai fini del controllo dei requisiti di legge, un termine pieno, e non “monco” (ossia di fatto inferiore a trenta giorni) come quello che alla stessa sarebbe inevitabilmente riservato se, alla scadenza indicata dalla legge, si dovesse procedere sia alla istruttoria della pratica ed alla relativa (eventuale) decisione inibitoria, sia alla materiale notificazione della predetta decisione.

(Nella specie, il Collegio ha evidenziato che è sufficiente che nel termine perentorio di trenta giorni l’ordine sia stato adottato e, tutt’al più, inviato, mentre la notifica, ossia la materiale conoscenza dell’ordine da parte del privato istante, può ragionevolmente avvenire, in considerazione degli ordinari tempi tecnici, anche successivamente a tale termine. Si tratta di un’impostazione coerente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale a proposito della notifica di atti giudiziari, ove si è affermato che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario anziché a quella, successiva, di ricezione dell’atto da parte del destinatario antecedente. Sarebbe infatti palesemente irragionevole che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario, l’agente postale oppure il messo comunale, come nella specie), e perciò del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo).

La denuncia di inizio attività nasce da esigenze di semplificazione e di liberalizzazione del sistema: in particolare, nel settore urbanistico tale esigenza si manifesta per lo più in ordine agli interventi (c.d. minori) di non rilevante impatto urbanistico. Per quanto riguarda poi gli impianti di energia rinnovabile, tale esigenza riveste natura ancor più accentuata se solo si tiene in debito conto, da un lato, che gli stessi sono considerati dalla normativa nazionale come opere di interesse pubblico; dall’altro lato, che la normativa comunitaria di riferimento, nell’ottica di una progressiva liberalizzazione del mercato dell’energia, esprime un netto “favor” per la produzione di energia derivante da fonti rinnovabili e per la realizzazione dei relativi impianti: in tale prospettiva, il legislatore comunitario impone così agli stati membri di rimuovere ogni ostacolo normativo o di altro tipo (es. amministrativo, come nella specie) all’aumento della produzione di elettricità di questo tipo.

Atteso l’obiettivo di massima semplificazione perseguito sia dalla DIA edilizia in sé, sia – e soprattutto – dalla normativa in materia di impianti di energia rinnovabile (come si evince dal citato quadro regolatorio nazionale e comunitario), ne deriva che ogni tipo di adempimento istruttorio posto a carico del privato debba essere soggetto ad un criterio di stretta interpretazione ed applicazione. Pertanto, poiché l’art. 23 del testo unico edilizia richiede che tali interventi, ai fini della loro ammissibilità, siano (unicamente) conformi agli strumenti urbanistici ed edilizi, alle norme di sicurezza ed a quelle di carattere igienico-sanitario, si deve ritenere che fuori da tali ipotesi la PA procedente non possa prospettare condizioni ostative alla realizzazione dell’intervento ulteriori o meglio afferenti ad interessi non rientranti tra quelli eminentemente ascritti alla sua sfera di competenza (comunale).

(Nella fattispecie, il Collegio ha dato ragione alla ricorrente, che sottolineava l’illegittimità della sospensione, da parte del Comune, del tiolo abilitativo, sulla mancanza di elementi istruttori non riconducibili a quelle attestazioni documentali che, ai sensi del predetto art. 23 TUED, debbono necessariamente corredare la denunzia di inizio attività).


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